Studio Cesetti

Le Pubblicazioni


Investigazioni difensive, luci e ombre

in "Giuridicamente", supplemento al n.11-2002 di "Specchio Economico", pagg. 8-9.

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Il giurista, oggi, dispone di una rinnovata disciplina delle indagini difensive, emanata in abrogazione dell’art. 38 disp. att. c.p.p., e portatrice di rilevanti modifiche normative.
Con la lg 7 dicembre 2000, n. 397, il Legislatore ha inteso attuare i principi della parità e del contraddittorio tra le parti, della ragionevolezza dei tempi e della terzietà del giudice, in altre parole ha voluto realizzare il c.d. “giusto processo” del novellato Art. 111 Cost.

Da una prima lettura della normativa si può affermare che l’auspicata equiparazione tra poteri investigativi del Pubblico Ministero e quelli del difensore sia stata formalizzata: ne sono testimoni il nuovo titolo VI bis, “Investigazioni difensive”, nel libro V del codice di rito; l’introduzione dell’art. 327 bis c.p.p., “Attività investigativa del difensore”, subito dopo gli artt. 326 e 327 contenenti i principi generali sulla direzione e lo scopo delle indagini preliminari; e la codificazione del delitto di “False dichiarazioni al difensore” all’art. 371 ter, sosia di quello di “False informazioni al pubblico ministero” ex art. 371 bis.

In particolare, dal complesso degli artt. 391 bis-decies contenuti nel nuovo titolo VI bis emerge che il difensore dispone di tre poteri: quello di conferire, ricevere dichiarazioni o assumere informazioni da persona in grado di riferire circostanze utili ai fini dell’attività investigativa; quello di richiedere documenti in possesso della Pubblica Amministrazione; quello di accedere ai luoghi anche privati o non aperti al pubblico, per procedere alla loro descrizione o per eseguire rilievi tecnici, grafici, planimetrici, fotografici o audiovisivi.

Vi è stato, dunque, un considerevole passo in avanti rispetto alla disciplina dell’abrogato art. 38 disp. att. c.p.p., il quale prevedeva una generica facoltà di svolgere investigazioni in favore dell’assistito.

Con riguardo al primo dei tre poteri, fra gli altri obblighi l’avvocato ha anche quello di avvertire la persona “della facoltà di non rispondere o di non rendere la dichiarazione” [v. art. 391 bis, comma 3, lett. d), c.p.p.], pena l’inutilizzabilità delle dichiarazioni ricevute. Se la persona si avvale di questa facoltà, il difensore può chiedere al P.M. di disporne l’audizione o di procedere per incidente probatorio [v. art. 391 bis, comma 10 e 11, c.p.p.], con l’inconveniente che in tali sedi, data la presenza del magistrato, vi sarà un’inevitabile discovery delle indagini difensive.

Questa sostanziale disparità di poteri tra “pubblica accusa” e “privata difesa”, tuttavia, non è eliminabile poiché la coartazione si fonda sulla natura pubblicistica dell’organo procedente, portatore dell’interesse pubblico sovra-ordinato a quello privato. Semmai, si poteva evitare di obbligare l’avvocato ad avvertire la persona del diritto di tacere come accade nel modello statunitense, in qui vi è la consapevolezza che la difesa è la parte debole e che la cross-examination è lo strumento più idoneo ad individuare eventuali affermazioni false del teste.

Con riguardo agli altri due poteri del difensore, bisogna dar conto che mentre per ottenere la documentazione dalla Pubblica Amministrazione retinente egli deve presentare apposita istanza al P.M. [v. artt. 391 quater, 367 e 368 c.p.p.], l’accesso ai luoghi privati o non aperti al pubblico, in caso di dissenso di chi ne ha la disponibilità, deve essere autorizzato dal giudice [v. art. 391 septies c.p.p.].

Una fattispecie normativa inopportuna è quella disciplinata dall’art. 391 quinquies: esso prevede che “se sussistono specifiche esigenze attinenti all’attività di indagine, il pubblico ministero può, con decreto motivato, vietare alle persone sentite di comunicare i fatti e le circostanze oggetto dell’indagine di cui hanno conoscenza”, per un periodo non superiore ai due mesi.

Questa disposizione viaggia inequivocabilmente in direzione opposta alla parità di poteri investigativi: la locuzione “specifiche esigenze attinenti all’attività di indagine” è estremamente generica e portatrice di possibili abusi; inoltre, anche se la norma può essere interpretata nel senso che i soggetti “segretabili” sono sia quelli sentiti dal P.M. che quelli sentiti dal difensore, non ci si può attendere che il magistrato intervenga quando le esigenze investigative da tutelare appartengano esclusivamente alla difesa.

La nuova disciplina finalmente affronta il problema che più volte la giurisprudenza aveva evidenziato, vale a dire l’assenza di forme di documentazione dell’attività d’indagine: per acquisire valenza probatoria in giudizio, le dichiarazioni devono essere sottoscritte dall’informatore ed accompagnate da una relazione attestante gli avvertimenti richiesti dalla legge, mentre le attività svolte durante l’accesso devono essere inserite in un verbale.
Prima della conclusione delle indagini preliminari, la documentazione viene inserita nel fascicolo del difensore che è formato e conservato presso il giudice per le indagini preliminari; successivamente, ferma restando la possibilità di presentare direttamente gli elementi di prova in udienza preliminare, il fascicolo del difensore è inserito in quello del P.M. e, con l’accordo delle parti, è anche possibile l’acquisizione al fascicolo per il dibattimento [v. artt. 391 octies e 431 ult. com., c.p.p.].

Ciò significa che le investigazioni difensive, almeno sulla carta, non sono più lettera morta: mentre sotto il rigore dell’abrogato art. 38 disp. att. c.p.p. l’acquisizione delle prove doveva essere sollecitata al P.M., unico organo incaricato della raccolta e del vaglio dei dati riguardanti fatti di possibile rilevanza penale, la nuova disciplina permette che tale attività possa essere svolta anche dal difensore.

Sotto questo profilo la normativa merita una valutazione positiva perché elevando le indagini difensive a veri e propri atti del procedimento assicura la parità tra accusa e difesa in relazione alla loro utilizzabilità.
Dalla disamina fin qui svolta, a parte le eccezioni su esposte, sembra potersi affermare che i soli ostacoli rimasti alla realizzazione della par condicio tra accusa e difesa sono le persistenti riserve mentali degli operatori del settore e della società.

La giurisprudenza della Suprema Corte, in vero, ha spesso seguito le modifiche legislative, ed alcune volte le ha precedute: Cass., sez. I, 31-01-1994, era ancora dell’idea che “Le indagini difensive possono essere finalizzate alla sollecitazione dell’attività investigativa del p.m. ovvero alla richiesta di incidente probatorio, mentre è esclusa una loro diretta utilizzabilità per le decisioni del giudice; tale interpretazione è confermata dal tenore letterale dell’art. 38 att. c.p.p. oltre che dalla ratio del sistema processuale che, attraverso l’art. 348 c.p.p., attribuisce esclusivamente alla polizia giudiziaria il compito di procedere all’assicurazione delle fonti di prova, e, attraverso l’art. 358 c.p.p., attribuisce esclusivamente al p.m. il compito di compiere ogni attività necessaria ai fini dell’esercizio dell’azione penale e di svolgere accertamenti su fatti o circostanze a favore dell’indagato.”; mentre già Cass., sez. VI, 16-10-1997, precedente alla novella, statuisce che “Il risultato delle indagini difensive è utilizzabile allo stesso modo di quello degli atti di indagine compiuti dal p.m.”

Purtroppo, non si può dire la stessa cosa della giurisprudenza di merito che rimane persuasa della mancanza di attendibilità del difensore poiché quest’ultimo tenderebbe all’affermazione delle proprie ragioni, e non all’accertamento della verità.

Altro ostacolo all’attività investigativa, inoltre, è proprio l’avvocatura: la mancanza, fino a soli due anni fa, di un’esaustiva disciplina sui poteri investigativi, la permanenza degli indubbi rischi legati al favoreggiamento, la carenza di risorse economiche e il persistere dell’indisponibilità, al contrario dell’Accusa, dei mezzi dello Stato nel compimento delle indagini, è tuttora sufficiente a scoraggiare l’avvocato dal compiere le indagini difensive per il proprio assistito.

Nella società odierna, poi, è assente una cultura dell’investigatore privato: ciò implica che spesso la gente nutre riserve mentali sugli effettivi poteri dell’avvocato ed ingenera la comune ed inspiegabile paura di commettere reato nel rilasciare dichiarazioni a chi non appare legittimato a farlo.

In ultima analisi, si auspica più impegno in capo agli avvocati nell’effettuare le indagini difensive e maggiore apertura della magistratura nel riconoscere a tale attività il dovuto valore; solo così facendo e col decorso del tempo si riuscirà a stabilire anche in Italia l’effettivo right to private investigation.


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